Con i numeri dei positivi al Covid-19 aumentano purtroppo anche quelli che riguardano i poveri. Nel circuito dell’emarginazione e della fragilità, alle tante categorie già esistenti – che rimangono quelle più colpite – se ne aggiungono di nuove. In questo periodo la Calabria è “tinta di rosso”, lo è per l’aumento continuo dei contagi e per la difficile e critica situazione sanitaria, ormai spudoratamente esposta alla gogna nazionale. L’intera Regione è in seria difficoltà anche a causa di una Riforma del Terzo Settore che tarda ad essere attuata a livello nazionale, ma particolarmente in questa terra. Il processo di cambiamento che interessa il Welfare nazionale è molto lento (siamo in attesa dell’istituzione del Registro unico nazionale degli Enti del Terzo Settore, di decreti esplicativi che definiscano e chiariscano gli aspetti fiscali inerenti la nuova veste da dare alle Organizzazioni …), ma è ancor più problematico in Calabria a causa della difficile attuazione della Riforma regionale del Welfare, che vede ancora realizzarsi un balletto tra Regione e Comuni Capi Ambito impreparati, senza competenze e non organizzati. Come si prevedeva e si temeva, tutto il sociale è in grande sofferenza. Le convenzioni con le strutture socio-assistenziali non sono state ancora firmate, di conseguenza dal primo gennaio ad oggi non hanno ottenuto un centesimo per le accoglienze offerte ai poveri e per le prestazioni effettuate, gli operatori sono quindi senza stipendio e la gestione è in affanno a causa dell’ormai insostenibiità dei costi e per le molte anticipazioni effettuate (utenze, generi alimentari e per l’igiene, vestiario, medicine e assistenza medica …).

Per tanti è un via vai continuo dalla Regione ai Comuni per sollecitare il superamento di questa situazione di stallo, per chiedere di dipanare la matassa e scioglierne i nodi. Puntualmente però, quando sembra di essere vicini all’obiettivo, i burocrati di turno (se ne trova sempre qualcuno in ogni amministrazione) bloccano ponendo nuovi ostacoli e scoraggiando chi avrebbe la voglia di assumersi le proprie responsabilità e di risolvere. Ci sono persone che sembrano divertirsi a complicare sempre tutto, che vedono ladri e disonesti in ogni Organizzazione che è impegnata nell’assistenza e nell’aiuto ai poveri verso un processo di autonomia, che non considerano la pluriennale esperienza maturata e la competenza acquisita in decenni di lavoro sul campo; ci potrà anche essere qualche situazione da attenzionare, qualche “mela marcia”, ma si fa di tutta l’erba un fascio e si paralizza così tutto il sistema. Eppure, quando c’è la patata bollente di turno da togliersi dalle mani le strutture vengono immediatamente chiamate, si affidano loro le persone che sono sulla strada, esattamente come si “scaricano” i barili pesanti. Gli amministratori del pubblico sembrano dimenticare che il Privato sociale fa fronte quotidianamente a mille necessità di una povertà che incalza, e per povertà non intendo una categoria astratta, mi riferisco a persone, in carne ed ossa, a volti e nomi precisi, con problemi diversi, donne e uomini bisognosi di essere aiutati senza indugiare, e di veder riconosciuta e rispettata la loro dignità. La povertà non cancella la comune appartenenza all’umanità, il comune possesso della dignità di persona umana. A questa dignità occorre guardare, quando si entra in rapporto con qualunque forma di povertà. La povertà risiede nella società e non nella persona: quando la società crea ostacoli allo svolgimento di una esistenza dignitosa, si prefigura nella collettività la condizione di emarginazione che è originata dal contesto e non dalla persona. La povertà spinge le persone in difficoltà all’isolamento e, in questi tempi particolarmente difficili, anche alla mancanza di speranza, di prospettive, di futuro. Solo un’esperienza di vita condivisa, di concerto con il tema dell’accoglienza, della solidarietà, della condivisione, dell’aiuto reciproco (i poveri hanno sempre molto da darci e da insegnarci!) può creare le condizioni di un corretto inserimento della persona nel tessuto sociale, lavorativo e culturale. Una società, per dirsi civile, deve porsi come obiettivo principale il benessere delle persone che ne fanno parte, valutandone i bisogni e accogliendone le esigenze fondamentali. Il processo è essenzialmente culturale e deve aiutare a comprendere e ad avvalorare il fatto che la persona debole, fragile, meno abbiente, non è una spesa che grava sul bilancio della comunità, ma una mano da stringere, una sfida che la sana politica deve raccogliere, preoccupandosi meno delle carte e delle formalità. Investire sui poveri può creare ricchezza perché un tessuto sociale coeso rappresenta la condizione fondamentale e indispensabile per generare risorse economiche e superare le disuguaglianze. Non può essere solo il criterio economico a dettare le linee programmatiche delle politiche sociali, bisogna piuttosto individuare quali strumenti sono capaci di migliorare la qualità della vita del non autosufficiente, dell’anziano solo, della vittima di violenza, dell’adulto privo di mezzi di sostentamento, del minore che ha bisogno di un contesto educativo e sostegno che la famiglia non sa o non può offrirgli, del disabile psichico  … Tutti, anche i più poveri, hanno diritto di emergere e rendere visibile la propria esistenza mettendo a disposizione ciò che sono, ciò che hanno e quanto potranno diventare (se sostenuti), come valore aggiunto, come risorsa, e questo rappresenta l’unica chiave di volta in grado di imprimere un cambiamento culturale. Se anche in questa terra di Calabria siamo convinti che nella diversità risiede un’opportunità di arricchimento e di crescita per tutti, è necessario che si avvii un nuovo processo educativo condiviso dalle Istituzioni pubbliche preposte e dal Terzo Settore (dando maggiore dignità, ad esempio, ai Forum, come avviene ormai da tempo anche nelle regioni del nord), così da creare una nuova generazione capace di accoglienza, solidarietà e inclusione vere. L’obiettivo è quello di rendere la vita degna di questo nome, da svolgere autonomamente anche attraverso la realizzazione di percorsi formativi che diano ai poveri accesso a un lavoro produttivo, rendendosi utili a se stessi e agli altri. Non è un’utopia. È difficile ma non dobbiamo rassegnarci, dobbiamo offrire tutti i mezzi possibili per aiutare a colmare i ritardi che ci sono in questa Regione. Non dobbiamo accettare l’ostruzionismo (spesso viene proprio dalla burocrazia) ma dobbiamo salvare le persone da un’esistenza condannata all’emarginazione. Dobbiamo cambiare le condizioni affinché i tanti poveri che bussano alle nostre case di accoglienza, ai nostri Centri di ascolto, agli sportelli Caritas, alle parrocchie, alle Associazioni, possano condurre una vita normale, possono esercitare i propri diritti e contribuire alla crescita e allo sviluppo della società e diventare da individui passivi individui attivi. I poveri non devono essere commiserati e assistiti (magari per tutta la vita o per lunghi anni), vanno presi in considerazione per il loro potenziale. Questo diventa possibile quando si rendono esigibili e attuabili le norme e, soprattutto, con l’aiuto sereno e fattivo di tutte le persone e gli attori coinvolti nella vita di quelle persone. Nessuna persona deve essere limitata e definita dall’etichetta che gli è stata imposta e nemmeno dalla diagnosi che gli è stata fatta. C’è molto lavoro da fare: solo camminando insieme diventa possibile quello che fino a un attimo prima sembrava impossibile. Abbiamo tutti da imparare l’uno dall’altro, ognuno di noi è in grado di dare qualcosa per migliorare l’esistenza dell’altro. Il valore sociale della povertà risiede esattamente in questo: superare il mito dell’efficienza, del rendimento a tutti i costi e dell’individualismo sfrenato, per accogliere il piacere della condivisione delle mete e degli obiettivi, la gioia di una vittoria frutto di scambi e collaborazione. Solo così riusciremo a ridurre i numeri critici in continuo aumento e solo così restituiremo alle persone povere che sono oggetto di troppe “trattazioni puramente economiche” la dignità che è stata loro rubata.

L’auspicio è che i responsabili del Welfare regionale (politici, dirigenti e funzionari) e anche quelli comunali, mettano al primo posto e, con urgenza, l’impegno a costruire il Bene Comune che è la vocazione di tutti. Non riusciremo se continueremo a lamentare che ‘la coperta è troppo corta’ ma, piuttosto, se comprenderemo che sulla vita dei poveri non si può scherzare, non si può ancora ‘tagliare’, semmai bisogna impegnarsi ad individuare e stanziare nuove risorse, quelle che potranno offrire un livello minimo di assistenza e servizi qualificati a chi è in difficoltà. La Riforma in atto impone requisiti organizzativi e strutturali importanti ed impegna le strutture, dunque, ad investire risorse economiche ingenti; non si può, per contro, continuare a minacciare di ridurre le rette perché ‘il budget non è sufficiente’. È un vero controsenso, è illogico e fuori da ogni comprensione. Questo modo di fare politica ha messo in atto (anche questo era previsto!) una vera guerra tra poveri, tra strutture. Viene da pensare che tutto è orchestrato al fine di mettere in ginocchio chi opera da anni nel socio-assistenziale per fare pulizia e favorire magari nuovi amici pronti a tutto, anche ad improvvisarsi esperti del sociale (sono scene già viste), pur di cogliere in questo delicato Settore possibilità di fare cassa. Il tempo è scaduto, bisogna far presto: salvare il sociale in questa Regione o veder crollare tutto il sistema da un momento all’altro.

don Piero Puglisi