L’essere genitori non è mai stato un compito facile. L’essere genitori di un figlio con disabilità è un compito arduo, una condizione che ti accompagna senza riserve, senza possibilità di scampo ogni istante della tua vita. Io lo sono da 42 anni, mamma di un bambino prima e di un uomo oggi con disabilità mentale di tipo medio-grave.

I sogni dell’attesa hanno popolato le mie notti di giovane futura mamma, sogni che si sono infranti allorquando, mio malgrado, sono sbarcata su un pianeta tanto misterioso, quanto sconosciuto. E così proprio come sulla luna, ho mosso i miei primi timidi passi nel pianeta handicap (questo il termine allora in voga). Una realtà sconvolgente e crudele che ha azzerato tutte le mie certezze, che ha fatto vacillare la mia ragione, mi ha annientato, confinandomi in una angoscia senza fine.

Nel vano tentativo di strappare mio figlio alla disabilità ho investito tutte le mie energie in un percorso di abilitazione, imponendo a me stessa, alla famiglia e al bambino un rigido protocollo di attività giornaliere che progressivamente gli hanno consentito di acquisire una buona autonomia personale e sociale. Non ricordo un giorno senza terapia: infanzia, fanciullezza, adolescenza ogni tappa era scandita sempre e comunque da esercitazioni estenuanti; senza sconti durante il tempo libero, nelle vacanze e persino nelle festività.

Coraggio, tenacia, forza, determinazione (praticamente una guerriera) queste alcune qualità che mi sono state attribuite e che hanno trasformato il mio ruolo di mamma in una solerte riabilitatrice, ruolo che ho rivestito per un lunghissimo, faticoso periodo. Ora, a distanza di tanti anni, guardo a ritroso e mi vedo sempre lì affannata, di corsa, caparbia, pronta a sperimentare nuove strategie per tentare di ridurre il danno, timorosa riguardo all’inserimento scolastico e poi speranzosa per una possibile integrazione sociale e perché no, anche lavorativa. Oggi la tenacia e la determinazione hanno lasciato il passo ad un’atra persona, sicuramente meno interventista, ma stanca e profondamente sfiduciata, incapace di lottare, avviluppata da mille difficoltà.

In quaranta anni tanti i cambiamenti avvenuti nella nostra società, impossibile negarne l’efficacia, tante le leggi e gli interventi a favore della disabilità; le associazioni di familiari e le cooperative sociali si sono moltiplicate per sopperire alla inefficienza delle Istituzioni, numerosi i progetti che amministrazioni comunali, provinciali e regionali hanno saputo realizzare, ma che non si sono tradotti in interventi stabili e duraturi.

Non si parla più di integrazione, bensì di inclusione. Quale? Se mi guardo intorno, almeno nella nostra realtà territoriale, non sono a conoscenza di buone prassi di inserimento lavorativo di persone con disabilità. I progetti si traducono spesso in forme di intrattenimento, che consentono almeno alcune ore di riposo ai genitori. Non oso neanche pensare, in questo strano periodo in cui tante persone, appartenenti alle cosiddette fasce deboli, sono diventate invisibili agli occhi delle forze politiche che ci governano, cosa accadrà ancora ai nostri figli diventati ormai adulti, avvolti in un limbo di omertà e silenzio.

Ed infine, cosa dire del problema dei problemi, quello che assilla tutti i genitori: “il dopo di noi”; ignorato, accantonato, lasciato all’improvvisazione, affidato alla sensibilità di qualche sparuto gruppo di volontari e consegnato ai familiari che continuano a non arrendersi e lottano, nonostante le avversità, per affermare il diritto di cittadinanza dei propri cari.

Quali aspettative ci è permesso ancora coltivare, in quale futuro ancora sperare?

Rosalba Rizza