Il termine Coronavirus è entrato in tutte le case ormai da circa due mesi attraverso i social e la tv. Fino ad un certo punto è stato vissuto come un problema che ci interessava da lontano, una situazione che riguardava solo la Cina e che ha risollevato le differenze culturali e i pregiudizi. Poi il primo caso in Italia, a Codogno; la chiusura della Lombardia definita “zona rossa”, un’Italia che inizia a sperimentarsi, suo malgrado, con un problema, lontano chilometri, ma che nel giro di pochi giorni mette in ginocchio un paese e la sicurezza dei suoi cittadini. Ultimo passaggio, segno tangibile di una diffusione più capillare e di un’Italia unita dal problema Covid -19, è rappresentato dalla conferenza stampa del Presidente del Consiglio Conte, il quale in una domenica sera firma, con decorrenza dal 10 marzo, un decreto per estendere la zona rossa all’intera Italia, isole comprese. Il Governo, in tale circostanza, ha enunciato una serie di norme a cui attenersi, mantenendo fermi i principi fondanti la repubblica democratica, ma confidando nel buon senso e nella coscienza di ciascun cittadino. Quindi è chiara la necessità di lavarsi le mani spesso, di non uscire di casa se non per comprovati motivi di lavoro o di salute, la chiusura di luoghi di socializzazione … Il decreto dà indicazioni per strutture afferenti a vari settori produttivi: istruzione, sanità, economia. Poi, l’11 marzo, è intervenuto un nuovo Decreto (D.P.C.M. n. 64) che ha reso ancora più rigide le misure prese, chiudendo tutte le attività commerciali ed i servizi “non necessari”.

E noi dove siamo? Dove si colloca il sistema socio-assistenziale, fino a ieri ed anche oggi così importante da sostituire lo Stato per risposte a svariati tipi di bisogni? Dov’è la tutela di chi vi opera, sia esso singolo individuo o Organizzazione? Chi versa in stato di bisogno, chi vive in strutture di accoglienza, dal 9 marzo cessa di esistere o viene meno quella condizione per cui si è reso necessario l’inserimento in un sistema di accoglienza e può tornare per strada? A questi interrogativi, le risposte ce le siamo costruite da noi, pur nella consapevolezza di un rischio tangibile e non solo di contagio, ma anche di collasso economico, laddove si ferma tutto. Noi continuiamo, pur rispettando le indicazioni generali del decreto, a prenderci cura di chi ci è stato affidato e lo facciamo da uomini e donne, da padri e madri, da fratelli e sorelle, da professionisti. Abbiamo, a malincuore, sospeso tutte le attività formative e di sensibilizzazione, abbiamo interrotto le attività dei Centri Diurni per la Disabilità, pur conoscendo il bisogno delle famiglie e del territorio, concentrando il nostro impegno e sacrificio nella cura dell’ultimo, di colui o colei che non hanno riferimenti o “porti sicuri” a cui approdare per attendere che passi la tempesta. Noi stiamo a casa, nelle nostre case, con le nostre famiglie, ma stiamo anche nelle strutture, in quelle famiglie “non convenzionali”, ma ricche di amore e bisognose di cure dove niente è più contagioso come l’Esempio!