Non è stata facile la ripartenza perché non è ancora il momento di abbassare la guardia, ma sono bastati gli occhi lucidi e i sorrisi nascosti dalle mascherine a far ritrovare tutti nuovamente insieme per laboratori socio-educativi. Un’accoglienza a distanza di sicurezza ma festosa che ha risollevato il morale degli ospiti dei Centri Minozzi e Cassidoro, separati ancora oggi da turnazioni messe in atto per evitare assembramenti. Tutto è stato superato, ogni singola restrizione ha il sapore della ripartenza, della vita! Ebbene sì perché, tirate le somme delle prime due fasi di emergenza, è possibile sostenere che per le persone con disabilità le restrizioni sono state più discriminanti degli altri, il loro tempo e quello delle loro famiglie è trascorso più lentamente ed è stato un tempo più doloroso. Nel corso del picco della pandemia, purtroppo, la persona con disabilità non ha destato l’interesse del legislatore. È stato infatti necessario aspettare il decreto “Cura Italia”, per vedere prese in considerazione alcune esigenze specifiche delle persone con disabilità, attraverso la chiusura di tutti i servizi diurni, l’attivazione di forme alternative di presa in carico e di agevolazioni per i lavoratori con disabilità o i loro caregiver familiari. Nella fase precedente invece, le scelte riguardanti la disabilità, possono essere definite di carattere “inerziale”: chiuse le scuole e quindi chiusi anche i servizi di assistenza educativa. Solo il 17 marzo lo Stato si è assunto la responsabilità di decretare la chiusura di tutti i servizi diurni e di indicare la possibilità di utilizzare risorse per avviare altre attività di supporto, in presenza o a distanza. Ma probabilmente questo non riguardava il privato sociale, che ha dovuto trovare in sè stesso la capacità creativa di ristrutturarsi e di mantenere vivo il legame con chi gli era stato affidato prima del Covid, ma dimenticato durante la pandemia. Tuttavia, ciò non è bastato perché se il livello di compromissione della persona con disabilità è stato importante, perché si è vissuta è la privazione di sostegni domiciliari fondamentali, quali ad esempio l’assistenza domiciliare per l’igiene personale. Nel momento della prova, il nostro modello di welfare ha messo in mostra i suoi tanti limiti ma anche le sue capacità e potenzialità. Abbiamo prima di tutto la conferma che il nostro rimane comunque un modello familistico di welfare sociale. La responsabilità della cura, dell’assistenza e della stessa tutela sanitaria delle persone con disabilità rimane sempre a carico delle persone con disabilità e delle loro famiglie, attraverso il lavoro di cura offerto prevalentemente dai caregiver familiari oppure da assistenti personali. Persone e famiglie che spesso trovano nelle proprie comunità sociali di appartenenza, sostegni importanti e significativi allo svolgimento del loro lavoro di assistenza e cura, grazie all’impegno dei servizi sociali di base, degli enti gestori dei servizi, delle associazioni e di altre realtà locali. In questi giorni in particolar modo, sono arrivate richieste di tutti i tipi, abbiamo ascoltato storie di ogni genere, abbiamo cercato di attivare quello che in questo momento era attivabile, sapendo che quel vuoto, sapendo che quei bisogni sono colmati in minima parte. Ma il popolo silente, nonostante tutto, riesce a non lamentarsi e in maniera dignitosa ha tenuto duro. Anche in questa fase di ripartenza, il servizio è stato riprogrammato, rispettando le ordinanze, ma mettendo al centro loro, la persona con disabilità e la famiglia, coprogettatore di questa nuova vita, della fruizione di un servizio in convivenza con il virus che, seppure meno aggressivo, è comunque presente. Le famiglie delle persone con disabilità, sono famiglie resilienti, la resilienza fa parte del loro DNA. È grazie a loro e gli operatori dei Centri, altrettanto creativamente resilienti, che oggi è possibile di nuovo stare insieme!