La triste rappresentazione della vita con distanziamento sociale, provocata dalla Pandemia COVID19, ha avuto i suoi riflessi anche nella casa d’accoglienza “L’Aliante”, che è ubicata nel centro del capoluogo di regione.

I primi accenni, proprio nel mese di febbraio, facevano presagire ad una possibile limitazione della vita sociale e questo provocava negli ospiti accolti, non poche preoccupazioni. Tali preoccupazioni non erano esclusivamente riferite all’impossibilità di uscire, ma anche alla possibilità di veder interrotti i percorsi d’istruzione e socializzazione, oltre a quelli riferiti alla formazione lavoro, in cui sono inseriti i nostri ospiti.

L’equipe ha compreso quanto fosse importante prevedere una vita comunitaria, volta al sostegno e all’incoraggiamento degli ospiti.

Dopo l’annuncio del distanziamento sociale e delle limitazioni nelle uscite, inizialmente non abbiamo notato alcun problema, ma andando avanti con il tempo, sono emerse tutte le peculiarità del tempo particolare a cui andavamo incontro.

La vita distanziata, i dispositivi da indossare e le mancate uscite da casa, hanno fatto emergere alcune caratteristiche degli ospiti, che in un primo momento non erano state notate. Il contatto interpersonale “forzato”, provocava una ricerca dei propri spazi, zone di comfort nelle quali rifugiarsi per pensare un pochino a sé stessi ed estraniarsi per un po’ dalla presenza degli altri. Emergeva anche il timore del contagio, e le informazioni che venivano fornite dai mezzi di comunicazione, spingevano gli ospiti a continue riflessioni che sfociavano poi nel timore. Siamo arrivati al punto che nessuno chiedeva di uscire, anzi, in alcuni casi la passeggiata nei pressi della struttura, che era consentita, non veniva sfruttata.

La convivenza produceva anche tensioni nel gruppo ospiti. Emergevano accenni di conflitto verbale, difficoltà nella gestione degli spazi e degli strumenti volti all’animazione. E qualcuno ha cercato qualche volta  di ignorare gli altri, per non entrare in conflitto.

Sono stati ovviamente intensificati i colloqui personali con gli ospiti, i quali sentivano il bisogno di esternare il proprio disagio e disappunto sul periodo che stavano vivendo. Ci chiediamo a volte, come sarebbe stato questo periodo, se gli ospiti attualmente accolti, non avessero avuto la possibilità di stare in una casa d’accoglienza.

Un periodo quindi in cui persone socialmente disagiate, hanno affrontato qualcosa di inaspettato e di incomprensibile.

La tristezza in alcuni momenti era palese; gli ospiti, ripensando ai loro obiettivi formativi e lavorativi, erano scoraggiati dalle proroghe del distanziamento sociale e dal pensiero che forse quanto intrapreso fino ad oggi per migliorare la propria condizione, potesse essere vanificato e pregiudicato del tutto.

L’equipe in tutto questo ha dovuto riflettere molto su come arginare questa situazione e sostenere gli ospiti. Ci si è detti che la risposta stava proprio nella natura della struttura, nel clima familiare che sempre abbiamo promosso con gli ospiti, ma forse in questo periodo era ancor più necessario renderlo efficace e presente. Pertanto, sono stati intensificati i momenti di condivisone degli spazi di socializzazione, proponendo occasioni di aggregazione affinchè si potesse creare un clima favorevole per stare insieme.

Tutto ciò non è stato facile e anche per gli operatori non è stato un periodo sereno.  Infatti, ognuno di noi vive nel suo ambiente familiare, dove ci sono bambini, anziani, coniugi figli e nonni. Uscire garantiti da un’autodichiarazione non ci garantiva da un possibile contagio, ma come poter lasciare soli gli ospiti? Il nostro è un lavoro che non si deve interrompere, l’abbiamo scelto e dobbiamo mantenerlo con le stesse caratteristiche di sempre.

Questo perché i poveri non vanno in ferie nè in cassa integrazione, la quarantena per loro diventa l’accentuarsi del disagio, per cui ci siamo detti: “coraggio”, andiamo avanti e facciamo in modo che gli ospiti ricevano forza da noi.

Si, perché questo è anche il senso del nome della nostra casa: “L’Aliante”. Se noi, propulsori di forza per raggiungere la quota, non abbiamo energia, come potrà l’aliante arrivare in alto per poi volare?

Come fare lo abbiamo scoperto da soli, confrontandoci, discutendo e a volte gestendo momenti di tensione tra noi, ma era tutto espressione della responsabilità che ognuno esprimeva in favore del servizio da prestare. Anche se provati dalla necessità di essere in cassa integrazione, dalle incertezze sanitarie, dal timore in alcuni casi di uscire e rientrare da casa nostra, siamo riusciti, uniti, a realizzare la nostra mission.

Cosa è emerso quindi da tutto ciò?

Che la scelta di operare in un clima familiare è vincente, che la convivenza tra persone di diversa nazionalità, cultura e religione è possibile, anche in momenti di forte preoccupazione e disagio.

Saper gestire tutto questo non è una cosa che s’impara soltanto leggendo dei libri, ma è frutto di una esperienza che la Fondazione è andata creando negli operatori, mediante la loro promozione umana. Nasce dall’esempio di un sacerdote, padre Piero che, come tutti noi, si è esposto ai rischi di contagio, per continuare la sua missione all’interno della Fondazione, nella sua parrocchia e sul territorio.

Pertanto sì, ci sentiamo di affermare, che quello che ci ha caratterizzato in questo tempo COVID19, non è stata soltanto la tenacia, ma anche qualcosa di più radicale e spirituale, l’adesione all’opzione di servire i poveri. Ci siamo sentiti un corpo unito, a partire dalla presidenza fino al più giovane degli operatori.

Quindi cosa dire in conclusione? Che anche il male il Signore lo tramuta in bene. Da questo periodo usciremo rafforzati e, sempre più convinti della nostra mission, continueremo a lavorare consapevoli che stiamo costruendo realmente una città solidale.